Autore: Antonella Di Martino - http://www.antonelladimartino.it Alberghi letali Fine settimana a Parigi, alla fine di luglio. Aeroporto, treno e infine taxi. Piove lentamente, il traffico avanza ancora più lentamente. Finalmente arrivo all’albergo. L’entrata è occupata dai fondoschiena, piuttosto voluminosi, di tre ragazzini. Il taxista, un omone allegro, scende e scambia qualche battuta a raffica in francese. Loro si spostano, senza perdere il sorriso. Con lo stesso sorriso il taxista mi consegna la valigia gialla, io gli dò in cambio gli euro. Merci bien, au revoir, e via. Tutto bene, nessun contrattempo. Eppure, un’angoscia senza oggetto mi assale alle spalle, mi avvolge, mi accompagna dalla reception all’ascensore. Sta per succedere qualcosa. Ne sono convinta. La camera è minuscola, ma nuova di zecca e tirata a lucido come una bomboniera. Tipico stile parigino: tutto il necessario stipato in pochi metri quadri, ma un minimo di buon gusto risparmia al cliente l’effetto sardina. Quando entro nel bagno microscopico non mi sento una sardina, ma un confetto in trappola. Una taglia extra rimarrebbe incastrata tra il water e la doccia. Niente bidet, nel nord Europa si usano poco. Tutto questo non è una novità. Conosco bene Parigi. Perché questo presentimento di sciagura si contorce dentro la mia pancia? Mi guardo allo specchio, e vedo la faccia di chi sta per incappare in qualcosa di brutto. Alzo le spalle ed esco dal bagno. Non so che cosa sarà quel qualcosa di brutto, ma di certo non annegherò sotto la doccia. La stanzetta è calda, la classe turistica non comprende l’aria condizionata. Apro la finestra per far entrare un po’ di gas freschi. Sistemo il contenuto della valigia e mi preparo ad affrontare la serata. Un ristorantino (“ino” davvero) tipico, con un menu tipico, in compagnia di vecchia amica, tipicamente parigina. Rido molto con Julie, bevendo vino rosso e rimpinzandomi di delizie al triplo burro. Per ora niente orrori, per fortuna reggo bene il colesterolo. Dopo cena, per consolarmi delle calorie ingurgitate, Julie mi trascina per le vetrine di Pigalle. Julie è una forza della natura, gli articoli erotici nelle vetrine sembrano giocattoli per adolescenti, l’aria è fresca ma non fredda. Non c’è niente di storto. Eppure, qualcosa c’è. Un brivido mi intorpidisce il cuoio capelluto. Al ritorno, davanti all’albergo, incontro di nuovo i ragazzini dal fondoschiena pesante. Fanno molto rumore. Passo tra loro, attenta a non inciampare. Risalgo alla mia bomboniera, mi butto tra le lenzuola e mi addormento. Il rumore e i gas che entrano dalla finestra funzionano da ninna nanna. Un urlo. Mi sveglio di colpo. Un urlo. Mi sveglio di colpo. Seguono altre urla in lingua sconosciuta. Eccolo, il terrore. Mi ha seguito di nascosto tutto il giorno, ora esce dall’ombra. Mi alzo. Altre urla, in francese. Mi affaccio alla finestra: qualcuno inveisce contro i ragazzini di prima, e loro rispondono. Niente di pericoloso, niente di strano, niente terrore. Maleducazione, banalissima maleducazione. Ora qualcuno chiamerà la police, e buonanotte a tutti gli urlatori. Chiudo la finestra. Non voglio saperne niente, non posso farci niente. Chiudo tutto fuori. Il vetro attutisce i rumori, e ormai la temperatura si è abbassata. Mi riaddormento e sogno. Passeggio per le vie di Pigalle. In una vetrina c’è un gigantesco fallo di gomma, dall’espressione cattiva. L’arnese si gonfia a dismisura, cresce, si allunga. Gli spuntano due occhi perfidi. Uno sguardo porcino mi segue. - Se continua a crescere così – penso angosciata nel sogno - rompe la vetrina… Esplosione, rumore di vetri infranti. Sobbalzo di nuovo. Sonno e sogno sono in mille pezzi. La finestra si è spalancata da sola. Un colpo di vento? Altre urla. Mi affaccio. Qualcuno ha scaraventato giù una finestra dell’albergo. I pezzi di vetro sono sparsi sul marciapiede, insieme al sangue. Uno dei ragazzini ridanciani è steso a terra. Morto. Maleducazione, banalissima maleducazione. Maggio, viaggio di lavoro nel centro Italia. Un piccolo borgo con storia e panorama, acciambellato su una collina. La passeggiata nella via dello struscio è piacevole. C’è l’università, ma non ci sono molti alberghi. Quello che ho scelto mi piace abbastanza: vecchiotto, camera spaziosa, pavimento di legno e gran specchio dalla cornice dorata. Il laboratorio è a due passi, domattina sarò là. Non troppo presto, mi è stato detto. L’albergo comprende anche un ristorante dalla sala spaziosa, che offre cucina tipica. Ordino olive all’ascolana e spaghetti alla chitarra. Mangio e mi guardo intorno. Probabilmente è ancora presto per i clienti, c’è poca gente. Accanto a me, cenano due vecchiette silenziose, in ciabatte. Probabilmente sono clienti fisse dell’albergo. Una delle vecchiette ha un viso che attira il mio sguardo. Anche lei mi guarda. Attrazione? Telepatia? Coincidenza? Di certo quel viso m’inquieta. Persa nel lettone della mia stanza, tento di acchiappare il sonno, e lui ovviamente scappa. All’improvviso, capisco perché quel viso mi attira tanto. Assomiglia al viso di mia nonna paterna, morta ormai da anni. Era una donna perfida. Anzi, era la perfidia fatta donna. Non perdeva l’occasione di infastidire chi le stava vicino. Ogni frase che diceva conteneva una percentuale di veleno. Ogni suo gesto era contro qualcuno. Portava umore nero ovunque. Quella nonna mi assomigliava moltissimo. Soltanto nei lineamenti, per fortuna. Anche l’espressione era diversa. A me può capitare di tirar fuori i denti come il lupo cattivo, ma quell’espressione da matrigna di Biancaneve che aveva lei, così accartocciata, così contratta, non è da me. Se avrò mai dei figli, quell’espressione verrà anche a me? Il giorno dopo mi sveglio presto, troppo presto per il laboratorio. Faccio due passi per il paese, mi fermo tra gli specchi dorati del bar centrale, sorseggio un altro caffè. Tristi pensieri, tristi domande, tristi ricordi mi perseguitano. Mi perseguita soprattutto il viso di quella vecchietta che mi assomiglia. Si affaccia anche in fondo al mio caffè. Quel viso sa di morte. Il paese in cui è nato mio padre si trova a pochi chilometri di distanza. Di certo è stato lui a trasmettermi i lineamenti delle donne locali. Mia madre invece è del Nord. Per merito suo mi ritrovo in testa una strampalata chioma bionda, che contrasta con gli occhi scuri e la pelle scurissima. Quando i miei capelli diventeranno bianchi, assomiglierò a quella vecchietta. Anzi, a quella “anziana”. È questo il termine corretto. Ho deciso che non sarò mai un’anziana. Preferisco diventare vecchia, decrepita, brutta, rugosa, rimbambita, magari con un carattere impossibile. Voglio diventare peggio di mia nonna. Voglio finire tutta sola in una casa di riposo, dove nessuno verrà mai a trovarmi. Sarò dispettosa e rumorosa, tormenterò gli addetti ai lavori. Dovranno sopportarmi, mi vendicherò di tutta una vita di rispetto per gli altri. Sarò una vecchiaccia talmente odiosa, che mi faranno fuori col veleno. Poi scriveranno un falso certificato di morte naturale. Nessun giudice vorrà far perder tempo ai medici con un’autopsia, ma io li fregherò in anticipo: lascerò scritto nel testamento che… Guardo l’orologio, è tardi. Rimando i progetti per la vecchiaia. La giornata di lavoro passa davanti ai computer. Il mio collaboratore è “più grande”, come si dice per non dire che è più vecchio. Regge molto bene i suoi decenni, considerando lo stile di vita. Tanto per cominciare, brucia quattro pacchetti di sigarette al giorno. Fuma in modo frenetico: ne accende una, se ne scorda, ne accende un'altra. Il tavolo si riempie di brace e di fumo. Le sigarette finiscono fuori dal portacenere, cadono a terra, scivolano nel cestino, abbrustoliscono il tavolo e gli altri mobili, gli scottano i polpastrelli. Per fortuna il fumo non mi dà fastidio, una volta fumavo anch’io. Ora ne fumo qualcuna solamente nei sogni. Le sigarette tornano nel mondo onirico insieme a tutte le altre abitudini perse. Rivedo in sogno la casa dell’altra nonna, la casa dei miei genitori, le montagne della mia adolescenza. Non vedo quasi mai la casa in cui abito adesso. La sera il collaboratore e sua moglie mi invitano a cena fuori. Offrono anche il trasporto gratis. Guida lui. Ogni tanto abbandona del tutto il volante, e si volta per chiacchierare, gesticolando e ridendo. Poi sgrida sua moglie, perché continua a frenare inutilmente. Mi accorgo che sto frenando anch’io. Il collaboratore mi racconta che lui, col suo “stile di guida”, non ha mai avuto un incidente. Deve avere un angelo custode molto efficiente. Vorrei averlo anch’io, un angelo così. Il collaboratore continua a ridere, voltarsi, raccontare. Sua moglie, dice, guida “troppo lenta” e “troppo prudente”, e, come se non bastasse, “dà retta ai cartelli”. Per questi motivi, secondo lui, la poveretta ha già avuto almeno cinque incidenti, di cui uno serio. Il mondo è ingiusto, l’ho sempre pensato. La giustizia la facciamo noi uomini. Qualche volta. Per il resto, niente. O quasi. Qualche felice coincidenza. Può anche succedere che una brava persona abbia successo, o che un mascalzone finisca male. Per fortuna, capita. La vita non è poi così male. Il collaboratore annuncia che ordinerà una cena leggera: minestra, pesce, per chiudere con un dolcetto. Divora una minestra densa a base di ceci e peperoncino, annaffiata da abbondante vino rosso. Sbrana baccalà con peperoni, il tutto annegato nel vino bianco. Tripla razione di dolce alla crema, e per chiudere un “grappone” offerto dalla casa. Una cena del genere mi ucciderebbe. Io e la moglie del collaboratore mangiamo poco, ma sicuramente il mal di stomaco verrà a una di noi. Comunque, si ride molto. Dopo il grappone, lui mi chiede se sono bionda naturale. Rispondo di sì. Come al solito, nessuno mi crede. La moglie del collaboratore è sempre immersa nei suoi pensieri. Probabilmente sta progettando l’omicidio del consorte. Forse ci ha già provato infinite volte, ma l’angelo custode lavora sodo. Un vero arrivista alato. Tornata in albergo, tornano i pensieri tristi. Mi tolgo il trucco, ed ecco che riemerge una delle mie tante anomalie: il mio ciglio destro è biondo, e contrasta con quello sinistro che è scuro. Senza mascara, l’occhio destro sembra più piccolo. Questa differenza è quasi sempre nascosta dal mascara, ma è comunque una differenza “esterna”. Forse le mie piccole differenze si fanno notare perché sono il riflesso di una differenza interiore? Forse oltre l’esteriore non esiste niente di niente? Per gli altri, intendo dire. Io conosco benissimo il caos che c’è dietro le ciglia. Sembra incredibile, ma è dall’infanzia che mi infastidiscono assiduamente con domande e insinuazioni sul colore della mia pelle e dei miei capelli. Come se fosse chissà che cosa. Quante scemenze deve sentire chi ha i genitori di razze diverse? E chi ha gli occhi di colore diverso? E chi si ritrova sfigurato, da un incidente o da un tumore? Mentre mi rigiro nel letto, i pensieri inseguono gli stessi sentieri del giorno: vecchiaia e morte, razzismo e differenza, ingiustizia e ingiustizia, e ancora ingiustizia. Tante domande inutili. Noi esseri umani ci distinguiamo dagli animali perché siamo in grado di porci domande inutili. E di perderci il sonno. Alla fine è il sonno che mi acchiappa a tradimento. Arriva subito anche il sogno. Sono su un’astronave, simile a quella di Star Trek. Passeggio tra una moltitudine di alieni, amabili e cortesi. C’è di tutto: pelli azzurre, squame, branchie, creste, nasi a turacciolo… Mi accorgo che tutti gli alieni hanno gli stessi occhi. Pupille scure, occhio destro con ciglio chiaro, occhio sinistro con ciglio scuro. Il mio inconscio mi sta prendendo in giro. Il meglio deve ancora arrivare: un lungo corteo di alieni si avvicina. Un’invasione? No, un funerale. La bara è futurista, di vetro e acciaio. Scommettiamo che indovino chi c’è là dentro? Dietro il vetro luccicante, c’è il viso sereno della vecchietta che mi somiglia. Sì, è lei. O forse sono io? Anche il collaboratore segue il feretro. - Vedi che cosa succede – mi dice – a chi non fuma, non beve, mangia poco, e per giunta guarda i cartelli? Anche questa mattina mi sveglio troppo presto. A colazione resto in albergo. Mi servono una torta soffice, macchiata di panna e cacao. Ricordo una zia cuoca che la impastava e la cucinava per noi nipoti. Anche lei è morta da tempo. Mi guardo intorno. Non vedo più la vecchietta che mi somiglia. Che le sia successo qualcosa? Esco in fretta, non ne voglio sapere niente. Esco talmente in fretta che mi dimentico il trucco. Più tardi, davanti ai computer, il collaboratore mi guarda negli occhi e ride: - Ti sei messa il mascara su un ciglio solo! Beh, a me capita spesso di uscire con scarpe e calzini di colore diverso… Ecco che cosa succede a chi non fuma, non beve, mangia poco e per giunta guarda i cartelli. Nel cartello in fondo alla strada c’è scritto: Hotel California. Finalmente sono arrivata. Alla reception non c’è nessuno. Chiamo. Nessuna risposta. Ci riprovo. Niente di niente. Eppure, l’albergo ha una facciata e delle rifiniture ben fatte. Eppure, il sito Web è talmente ben fatto… Ah, ecco, c’è la schermata del computer che mi dà il benvenuto. Welcome to the hotel California. Manca solamente il sottofondo musicale con la vecchia canzone degli Heagles. E per la registrazione dei documenti, che si fa? La schermata cambia, ora comunica in italiano. La registrazione online è sufficiente, può prendere la chiave numero 17. Le auguriamo un buon soggiorno. Perfetto! Detesto le formalità e non sono superstiziosa. Bzzz! L’ascensore si apre automaticamente. La cabina è grande e luminosa. Mi ammiro allo specchio. Il trucco è perfetto. Non capisco a cosa sia dovuto l’alone scuro che circonda la mia immagine. Deve essere un effetto della strana luce che c’è qua dentro. Ha qualcosa di lunare. Il sottofondo musicale è un malinconico pezzo di Mozart. Niente Eagles. Tutto bene, adoro anche Mozart. La stanza è lussuosa, anzi lussuriosa. Niente di volgare, però. E il prezzo non è caro. Luce, spazio, aria fresca, moquette, colori tra il giallo e il verde, rifiniture che sembrano gioielli, luci e interruttori ovunque. Sembra di entrare in un grande girasole di velluto. Lo schermo della televisione assomiglia a un quadro appeso alla parete: è grande, piatto e nero. La toilette ha anche la vasca idromassaggio. Il frigobar è ben fornito, c’è persino del buon champagne rosé. Se voglio, più tardi posso ordinare un menu favoloso in camera. Quella stanza sembra il paese delle meraviglie. E quelle macchie scure sul soffitto? Stonano. Per ora non ho voglia di far niente. Mi tolgo le scarpe, mi distendo sul letto, che è grande ma non troppo. Mi accorgo di non ricordare per quale motivo sono qui. Lavoro? Perché, ho un lavoro? Vacanze? E da che cosa? Sesso, amore? Che cosa sono?Il velluto del girasole mi avvolge. Non sono mai stata così bene: ho dimenticato tutti i termini di paragone. Non ho voglia di leggere, la televisione non mi attira, non ho fame, non ho sete. E non mi annoio. Probabilmente prima di partire ho bevuto qualcosa che mi ha fatto scordare tutto: bagagli, radici, ricordi, desideri. Non ricordo più nulla di ciò che è rimasto fuori dall’albergo. Mi viene in mente solamente un deserto senza fine, non ricordo bene se caldo o freddo. Poi anche quell’immagine svanisce. 9